Il contratto di apprendistato è stato oggetto di varie riforme negli ultimi anni, essendo rimasto dal 2003 l’unica forma contrattuale di lavoro con finalità formative e volte all’inserimento dei giovani nel mercato occupazionale.
Nel 2012, la riforma Fornero aveva posto alcuni paletti alle imprese, limitando il numero delle assunzioni con contratti di apprendistato a quello dei dipendenti in servizio a tempo indeterminato per le imprese fino a 10 dipendenti, mentre per quelle con un numero superiore di dipendenti era stato prevista l’assunzione fino a 3 apprendisti per ogni due dipendenti assunti a tempo indeterminato. Inoltre, si prevedeva con quella riforma che per assumere nuovi apprendisti, le imprese con almeno 10 dipendenti avrebbero dovuto stabilizzare a tempo indeterminato almeno il 30% dei contratti di apprendistato nei 36 mesi precedenti.
L’intento era chiaro: incentivare il ricorso all’apprendistato, se effettivamente utile all’inserimento di nuovi giovani sul mercato del lavoro, ma al contempo evitare gli abusi, ossia l’utilizzo improprio che ne avrebbero fatto molte imprese negli ultimi anni, come se si trattasse di un contratto a tempo determinato e a basso costo.
Con la manovra economica del 2011, poi, erano stati istituite nei fatti 4 tipologie di assunzione con l’apprendistato:
quello per la qualifica e il diploma professionale, volto ai lavoratori di età compresa tra i 15 e i 25 anni, finalizzato anche all’assolvimento dell’obbligo dell’istruzione. La durata massima prevista era di 3 anni, sulla base della qualifica e del titolo da conseguire;
il contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere per i giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni, che possono competare l’iter professionale anche presso la Pubblica Amministrazione e la cui durata massima era prevista in 6 anni;
il contratto di apprendistato e di alta formazione e ricerca, riservato ai giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni, per quanti vogliano raggiungere il più alto grado di istruzione, attraverso la frequenza di corsi di dottorato e di ricerca, sia presso il settore privato, studi professionali inclusi, sia presso il settore pubblico. La durata massima è stabilita da ciascuna Regione;
Infine, l’apprendistato per la riqualificazione dei lavoratori in mobilità espulsi dai processi produttivi, per cui è previsto un regime fiscale agevolativo, al fine di reintrodurre i lavoratori sul mercato del lavoro, evitando che vi rimangano fuori a lungo e che perdano professionalità.
I risultati della riforma, però, sono stati deludenti, perché se è vero che l’intento fosse di evitare gli abusi, la nuova normativa aveva reso difficili le assunzioni con l’apprendistato, le quali potevano avvenire solamente dopo la predisposizione di un piano formativo scritto e giustificato. Nei fatti, la disoccupazione giovanile è esplosa, come abbiamo avuto modo di notare, in parte forse anche per la maggiore rigidità dei contratti.
Tutto ciò ha indotto sia il governo Letta nel 2013 e ancora di più il governo Renzi nel 2014 a rimettere mano alla materia, tanto che con l’ultima riforma esistono adesso solamente 7 articoli che regolano le assunzioni con contratto di apprendistato.
Con l’ultima riforma, quindi, i paletti sono stati allentati o anche soppressi. Non esiste più un limite alle assunzioni di apprendisti sulla base del numero dei dipendenti già in servizio con un contratto a tempo indeterminato. In più, non è prevista una percentuale minima di riconferma alla fine del contratto, così come si può assumere un nuovo apprendista, senza tenere in considerazione i tassi di riconferma dell’azienda in passato.
In più, il Piano di Formazione Individuale non necessita della forma scritta, cosa che si configura come un beneficio, in particolare, per le piccole imprese, le quali con la riforma Fornero avevano affrontato più di una difficoltà burocratica per assumere un apprendistato e temendo allo stesso tempo di non avere giustificato a sufficienza la necessità dei nuovi contratti. La forma scritta resta, quindi, per i contratti e il patto di prova. E’ stato fissato, poi, che le ore di formazione debbano essere retribuite almeno pari al 35% della paga oraria prevista per l’inquadramento contrattuale di riferimento.
Altro aspetto interessante, la cui portata potrebbe prestarsi a una interpretazione contrastante, riguarda l’eliminazione della durata massima. Il nuovo contratto di apprendistato non è più a termine, ma a tempo indeterminato e finalizzato alla formazione all’occupazione dei giovani. Le parti non possono, infatti, recedere durante il periodo di formazione, tranne che per i casi di giusta causa o di giustificato motivo.
C’è chi ritiene questa previsione una ufficializzazione a vita della precarietà, nel senso che l’impresa potrebbe tenere un apprendista a tempo indeterminato, beneficiando della minore retribuzione. D’altra parte, però, il tempo indeterminato potrebbe essere un onere in più a carico delle imprese, che non avrebbero più la stessa facilità di prima nell’espellere un lavoratore al termine del contratto. Inoltre, si consideri che la minore retribuzione sarebbe comunque giustificata dall’erogazione di ore formative da parte dell’impresa, non sarebbe un vero beneficio netto.