Senso comune vuole che l’osservazione della realtà vari in funzione del punto di osservazione: cambiando questo, si modifica anche l’angolo di visuale, il metro di giudizio e le conseguenti valutazioni. Stabilire chiaramente da che punto di vista ci si pone è quindi necessario per potere eseguire dei raffronti corretti. Anche gli economisti, se intendono confrontare con lo stesso metro realtà differenti, devono stabilire dei punti fissi, in relazione ai quali osservare e valutare l’oggetto di studio. Tali “picchetti” vengono definiti con terminologia inglese benchmark, ossia letteralmente.
In particolare, benchmark sono detti determinati tassi di interesse, le cui specifiche caratteristiche sono tali da renderli idonei a un’analisi volta a individuare i fattori che influenzano il rendimento dei titoli e in specie delle obbligazioni. Tali tassi, in virtù delle loro caratteristiche strutturali, che ne fanno quasi dei tassi “primigeni”, vengono anche detti base interest rate. In italiano, sono indifferentemente individuati come tassi di riferimento o tassi base. Tre sono le caratteristiche dei titoli il cui rendimento può essere qualificato tasso benchmark: devono essere emessi da soggetti che non presentano rischi di credito; devono essere i più liquidi fra quelli aventi uguale maturità, ossia relativamente a un determinato termine di scadenza devono rappresentare i titoli più scambiati sul mercato; e, in terzo luogo, devono appartenere all’ultima emissione di una data maturità, ossia essere un titolo on-the-run. Titoli siffatti sono generalmente titoli di Stato, essendo quest’ultimo il più grande debitore di una nazione e quindi i titoli sul debito pubblico sono quelli emessi in maggior numero e, conseguentemente, i più trattati. Il tasso benchmark è pari quindi al rendimento offerto dai titoli di Stato on-the-run per una data maturità e rappresenta il rendimento minimo che un investitore può ottenere su un titolo di pari durata.
Se il benchmark è questo tasso, risulta allora che tutti gli altri tassi possono essere considerati come la somma di questo tasso – ecco perché viene anche detto base – e di uno spread, o differenziale, che varia in funzione di una serie di fattori. I principali sono: il tipo di emittente, Stato o altro ente pubblico, oppure impresa privata; il suo grado di rischio valutato dalle principali agenzie di rating, ossia il rischio che l’emittente non adempia al pagamento degli interessi e al rimborso del capitale nei termini stabiliti; la maturità del titolo; la sua liquidità; e, infine, il regime fiscale a cui sono soggetti i redditi che esso genera. L’entità dello spread può fornire utili indicazioni agli economisti in relazione a una particolare variabile, quando tutte le altre sono identiche, oppure a riguardo di taluni cambiamenti intervenuti in un determinato lasso di tempo. A parità di maturità, liquidità, regime fiscale e tipo di emittente, per esempio, è facile dedurre dal più alto rendimento offerto dai titoli emessi quale sia lo standing creditizio ossia il grado di merito di un determinato soggetto. Poiché a una determinata differenza nel grado di rischio dovrebbe corrispondere, a parità di altre condizioni, uno stesso spread, l’emittente di titoli con più alto rendimento è quello che offre al mercato minori garanzie in termini di solvibilità. Analogamente, dalle variazioni dello spread in un determinato periodo gli economisti capiscono, o meglio, tentano di capire, in quale direzione sono mutati gli umori di mercato.
In Italia, il termine benchmark ha assunto ampia diffusione nel linguaggio finanziario dei piccoli risparmiatori a partire dalla seconda metà del ’98, in seguito all’introduzione dell’obbligo per Sgr e Sicav di indicare nel prospetto informativo che illustra le caratteristiche dell’investimento proposto, spesso in titoli azionari, il parametro oggettivo di riferimento (cosiddetto benchmark). Esso deve essere costruito facendo riferimento a indici elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo, in maniera da rispecchiare quanto più fedelmente possibile il profilo di rischio/rendimento dell’investimento, così da consentire al risparmiatore una facile verifica circa la bontà della gestione finanziaria. In questo senso, i benchmark più noti sono rappresentati dai principali indici borsistici, come per esempio il Mib30, il Dow Jones Industrials, il Ftse100.