L’accordo di ristrutturazione del debito è uno strumento flessibile, contemplato dalla legge fallimentare, che assegna all’impresa in stato di crisi la facoltà di proporre ai creditori una qualche forma di alleggerimento delle passività, in modo da evitare di chiudere battenti.
Per fare in modo che un tale accordo abbia efficacia, è necessario che sia accolto da tanti creditori, in rappresentanza di almeno il 60% dei crediti dell’impresa, compresi quelli di natura fiscale e previdenziale. L’intesa ha natura privatistica, in quanto non produce effetti verso anche i creditori non aderenti. Questi continuano a essere titolari degli stessi diritti e, pertanto, continueranno a esigere quanto loro dovuto alle scadenze e alle condizioni pattuite. La natura privatistica si esplica anche nel fatto che l’accordo non è tenuto al rispetto del criterio della par condicio creditorium, ovvero del rispetto del principio di pari trattamento tra tutti i creditori.
L’accordo nasce con una richiesta o proposta di pre accordo. L’intesa sottoscritta da almeno i rappresentanti del 60% dei crediti deve essere certificata da un esperto professionista, iscritto all’albo dei revisori contabili, che ne attesti la fattibilità e l’attuabilità del piano concordato. In particolare, questi deve certificare che l’impresa sia nelle condizioni di adempiere alle obbligazioni nei confronti dei creditori non aderenti.
L’intesa deve essere depositata presso il registro delle imprese, insieme all’elenco dei creditori aderenti e dei relativi crediti, e successivamente omologata dal giudice. Dal momento che ciò avviene, decorre un periodo di 60 giorni, durante il quale è fatto divieto ai creditori di intraprendere azioni individuali esecutive verso l’impresa, nonché il termine di 30 giorni per fare opposizione. Sono possibili, però, le azioni esecutive nel corso delle trattative, cioè prima che sia pubblicato l’accordo nel registro delle imprese, ma il debitore ha il diritto di richiedere istanza di sospensione.
Una precisazione, visto che tra i creditori aderenti rientra potenzialmente anche il Fisco, se il 60% è stato raggiunto indipendentemente dalla sua adesione, l’impresa non è tenuta al suo previo consenso per il deposito dell’accordo presso il registro delle imprese, viceversa lo è, in quanto ciò risulterebbe determinante ai fini dell’efficacia.
Abbiamo detto che la ristrutturazione del debito è possibile nei casi di stato di crisi aziendale. Tuttavia, l’affermazione appare generica. La giurisprudenza sembra abbastanza certa, però, che per crisi non possa intendersi un semplice declino dell’impresa. In sostanza, lo strumento dell’accordo non può essere fonte di abusi da parte dell’azienda, ma rientra in quelle azioni volte ad evitare effettivamente il fallimento. Dunque, esso potrebbe essere proposto o richiesto nei casi di liquidazione coatta amministrativa o di insolvenza, ma non da parte dell’impresa irregolare, in quanto non potrebbe avvenire proprio il deposito dell’accordo presso il registro delle imprese, presupposto perché esso diventi efficace.
I creditori non aderenti e che non si vedano soddisfatti nei termini fissati hanno titolo per presentare istanza di fallimento, così come anche i creditori aderenti, qualora l’impresa non rispetti nemmeno l’accordo da essa stessa proposto.
Quanto all’oggetto di simili accordi di ristrutturazione, abbiamo già scritto che si tratta di strumenti flessibili. Ciò implica che è lasciato alla libera contrattazione tra le parti di fissare come stringere un nuovo accordo. In genere, la ristrutturazione può avvenire nella forma di un taglio debito, l’impresa doveva 100 al creditore X, ma i due si accordano per un versamento alla scadenza di, poniamo, 70. Dunque, per il creditore si ha una perdita secca, ma questi presumibilmente accetterà, qualora avverta che l’alternativa sarebbe il fallimento dell’impresa, con conseguente dispendio di tempo e energie, finalizzato ad aggredire un patrimonio, che potrebbe persino risultare insufficiente al rimborso integrale dei crediti. In sostanza, a volte è meglio accettare di meno, ma subito, piuttosto che rischiare di prendere anche meno in futuro.
Un’altra forma possibile di ristrutturazione potrebbe consistere, invece, nell’allungamento delle scadenze e nella riduzione dei tassi di interesse applicati. Ipotizziamo che una banca vanti un credito di un milione di euro in scadenza a 3 anni verso l’azienda X e che l’interesse annuo pattuito sia del 5%. Ebbene, le parti potrebbero concordare di spalmare il debito in 10 rate annuali, partendo dalla scadenza prefissata e/o di abbassare contestualmente l’interesse al 3%.
In teoria, il creditore non ha subito una vera e propria perdita, ma dovrà accontentarsi di riscuotere il credito in un arco di tempo più lungo e di lucrare su di esso un interesse più basso.
Potrebbe anche essere concordato una combinazione delle due misure sopra descritte, ovvero un taglio del debito e il contestuale allungamento delle scadenze e/o abbassamento degli interessi.
Infine, potrebbero presentarsi casi ancora più disparati, un creditore potrebbe accettare di convertire almeno parte del credito in capitale di rischio, diventando di fatto socio dell’azienda. Risulta essere il caso delle banche, che spesso convertono i loro crediti in azioni, diventando soci di minoranza, generalmente per un periodo di transizioni e finalizzato alla tutela delle somme da riscuotere. Dalla posizione di azionista, infatti, il creditore ha maggiori possibilità di accesso alle informazioni necessarie a conoscere lo stato finanziario dell’azienda debitrice.